Intervista esclusiva di Antonello Sette al professor Massimo Massetti, direttore dell’Area Cardiovascolare e della Cardiochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma
“Le sembrerà, se non strano, almeno inconsueto, ma ho deciso di fare il cardiochirurgo quando ancora frequentavo la scuola media. Non ne ho un ricordo diretto, ma i miei genitori mi hanno riferito che avevo letto un libro, scritto da un grande cardiochirurgo, quale è stato Gaetano Azzolina. Quel libro, che ha segnato per sempre la mia vita, racconta la straordinaria storia di un uomo che era andato negli Stati Uniti per imparare, aveva sposato un’infermiera specializzata nella circolazione extracorporea e aveva poi traferito la sua esperienza in Italia, pioniere della nuova frontiera, che avrebbe aperto la strada alla moderna cardiochirurgia e alla salvezza di un numero sempre più grande di vite compromesse di adulti e bambini”.
Anche la vita di Massimo Massetti è un libro che attende solo di essere scritto. Un libro che ripercorre la storia di una passione innata. Una passione precoce, che ha dettato i tempi e persino i luoghi di un’avventura, che ha portato il protagonista a rendere concreto un sogno, maturato quando, poco più che bambino, aveva letto, tutto d’un fiato, il libro del suo mitico predecessore…
“La storia affascinante di Azzolina fu come un colpo di fulmine e il mio primo innamoramento. Cominciai a fare alcune ricerche per conto mio. Ho ancora alcuni quaderni di allora che lo attestano inequivocabilmente. Quella mia passione infantile si è consolidata nel tempo e, arrivato all’università, mi sono iscritto al corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di Siena, perché volevo fare niente altro che il cardiochirurgo per sempre. Non a caso, iniziai a frequentare, quasi da subito, il reparto di cardiochirurgia della Facoltà. Andavo lì tutti i giorni, misuravo la pressione dei pazienti e facevo il giro visita al seguito dell’équipe. Ero ancora un giovane studente, ma respiravo già a pieni polmoni, l’atmosfera, almeno per me unica, della cardiochirurgia. Mi sono laureato, ho iniziato il corso di specializzazione, ma, più o meno all’improvviso, l’ho interrotto per continuare altrove. Carlo Sassi, che era Il mio maestro di allora, cardiochirurgo, anatomista e anche scultore, mi disse, quasi a bruciapelo, che, se volevo diventare un grande cardiochirurgo, dovevo andare all’estero, perché in Italia non c’erano, a suo giudizio, scuole di cardiochirurgia all’altezza. Mi inviò, in virtù dei contatti e delle conoscenze che aveva, a Caen, una città della bassa Normandia, vicina a dove, il 6 giugno 1944, erano sbarcate le forze alleate di liberazione. Era l’estate del 1992. Salii sulla mia Opel Kadett Station Wagon, che aveva superato indenne i suoi primi quattrocentomila chilometri, e partii. Non conoscevo neppure una parola di francese. All’inizio fu un trauma, ma ben presto mi sono sentito libero e al sicuro, come a casa mia. C’era un grande policlinico universitario e un centro trapianti molto attrezzato e all’avanguardia. Ci sono rimasto vent’anni. Una intera stagione della mia vita, che mi ha formato, forgiato e aperto tutti gli orizzonti, che avevo intravisto da ragazzo, leggendo il libro di Azzolina, emblematicamente intitolato “Senza cuore”. A Caen ho finito la specializzazione, iniziato una carriera, prima ospedaliera e poi universitaria e nel 2003 sono diventato professore associato. Nel 2006 ho preso l’aspettativa per andare a lavorare nel centro trapianti di Pavia. Due anni dopo sono tornato a Caen. Nel 2009 ho vinto il concorso per il primariato e, come un cerchio magico che si chiude, sono diventato Professore Ordinario alla Facoltà di Medicina dell’Università di Caen e il Direttore del Dipartimento di cardiochirurgia e di trapianti d’organo. Ero io l’erede designato del mio vero grande maestro, André Khayat, francese di origini libanesi, che mi aveva accolto diciassette anni prima, quando ero solo uno specializzando armato di talento, sogni e buona volontà e insegnato tutto, dai trapianti all’impianto dei cuori artificiali. Sono rimasto lì nel mio nuovo ruolo sino a quando, nel 2012, mi hanno proposto di rientrare in Italia per dirigere il reparto di cardiochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma. Pensai che il destino coincideva con il mio desiderio di tornare alla base e accettai. Sono entrato da primario al Gemelli senza concorso, ma in virtù della legge, da poco emanata, che favoriva il ritorno dei cervelli in Italia.
Professore, lei ha cominciato a frequentare il primo reparto di cardiochirurga a Siena poco meno di quaranta anni fa. Le chiedo quanti e quali progressi sono stati fatti da quell’epoca ancora pionieristica?
“I progressi sono stati enormi. Sul piano delle tecnologie, delle strategie e della cura. Molti pazienti, che sino a dieci anni fa erano giudicati inoperabili, perché anziani o perché affetti da altre patologie invalidanti, oggi sono operati e trattati con tecniche altamente sofisticate ed efficaci. Aggiungo che sino a quindici anni fa, quando un cuore non funzionava più, l’unica possibilità era il trapianto. Nel frattempo abbiamo sviluppato supporti meccanici e il cuore artificiale, che sono stati al centro della mia attenzione e ricerca. Su questo ho formato chirurghi di tutto il mondo, dal Giappone alla Francia e alla stessa Italia”.
Dove va la cardiochirurgia? Quale è il suo futuro?
“Il futuro della chirurgia sarà disegnato dai progressi delle tecnologie e delle terapie farmacologiche. Per quanto mi riguarda, il futuro sarà scritto dalla riscoperta della dignità del malato. Vede, il modo in cui curiamo i pazienti è andato via via scivolando verso il trattamento della malattia e non del malato. La medicina specialistica oggi esegue prestazioni. Cura le valvole che disfunzionano, i cuori malati, ma non il paziente nella sua integrità psicologica e spirituale. Il paziente, in quanto donna, uomo e bambino, viene trascurato, come un di più, un’entità superflua, rispetto all’organo malato. Credo fermamente che le tecnologie e le terapie sempre più avanzate debbano supportare il malato come persona. La medicina del futuro sarà sicuramente più umana di quella che oggi viviamo e pratichiamo. Sono in prima linea fra quelli impegnati a realizzare un modello organizzativo, che ponga al centro del sistema sanitario il paziente e il suo problema di salute, spazzando via la visione riduttiva e astratta e di mere prestazioni su organi malati. Vorrei che fosse questo il mio messaggio da lasciare in eredità a tutti quelli che mi seguiranno”.
Caro professore, c’è un intervento che non dimenticherà mai?
“Il primo trapianto cardiaco. Mi ero specializzato da poco. Avevo solo 31 anni. Era giovane anche il paziente. Fu un’emozione fortissima che porterò dentro di me per sempre. Nel trapianto cardiaco si estraggono due cuori. Uno da una vita che non c’è più e l’altro dal paziente. Vediamo un corpo, che non ha più il cuore e che è mantenuto in vita per ore dalla circolazione extracorporea, sino a quando suturiamo su di lui un cuore, che per lui è nuovo, ma che era stato l’organo vitale del donatore, in morte cerebrale. È la vita che si sposta e che ritorna. È un’emozione indescrivibile, intensa e bellissima, che ogni volta si ripete, ma quella della prima volta ha qualcosa di più: lo stupore della prima volta, che lo avvicina a un miracolo, l’orgoglio e la commozione di avercela fatta. A, anzi nonostante, i tuoi 31 anni e poco più”.
Ha pianto? “Non ho pianto, ma è un’emozione così viva e stravolgente che, ogni volta che ci penso, mi scuote ancora l’anima”.