La qualità e la sicurezza delle protesi mammarie configurano un problema antico, che non è mai stato archiviato, come un incubo del passato. È un mercato sconfinato, in cui coesistono, fianco a fianco, grandi e piccoli, operatori dotati di tutti i requisiti necessari e apprendisti, più o meno stregoni. È anche il mercato cinico delle offerte imperdibili, che fanno il verso a quelle caldeggiate, per non dire urlate, dagli imbonitori televisivi per le macchinette del caffè. I controllori, istituzionalmente deputati a fornire il visto della congruità e della scrupolosa osservanza delle regole, ammesso che di regole vere e proprie si possa parlare, sono troppo spesso incapaci di controllare anche sé stessi. La storia dei deragliamenti dai binari è, ahinoi, lunga e tortuosa. A ripercorrerla, seppure per sommi capi, si ondeggia, ogni volta, fra lo stupore e il disgusto.
Il primo scandalo, che si diffuse a macchia d’olio in virtù di un rimbombo mediatico senza precedenti, almeno in questo delicatissimo campo, fu quello datato dicembre 2011, dell’azienda francese Pip, che produceva protesi propagandate come il nuovo rimedio miracoloso, che avrebbe soddisfatto tutte le aspettative e risolto qualsiasi tipo di problema, oltretutto a un prezzo d’affezione. Ci cascarono in molti, fra medici e pazienti, che non esitarono a prendere per buone e, soprattutto, a considerare affidabili quelle protesi mammarie, che un marketing senza scrupoli aveva imposto come un irrinunciabile toccasana, a portata di tutte le tasche. La grancassa si spense quando si scoprì che le prodigiose protesi erano state prodotte, utilizzando un silicone industriale a bassissimo costo e non quello medicale, previsto da tutti i più elementari protocolli. Tutto svanì nello spazio di un mattino. La propaganda zittita, le protesi sequestrate, il CEO arrestato in flagranza di reato. Duemila e cinquecento pazienti intrapresero un’azione legale anche contro il poco attento, per usare un eufemismo, ente certificatore, che aveva evidentemente certificato a vanvera.
Arrivò, poi, il saliscendi della Silimed che, esattamente come la Pip, garantiva alle donne, che avessero scelto le sue protesi, un seno plasmato a immagine e somiglianza di quello da estasi delle statue greche. La Silimed è un’azienda brasiliana, che da oltre quarant’anni produce protesi mammarie, e non solo, inizialmente indirizzate al mercato autoctono. Il successo è irrefrenabile. Il Brasile, per quanto grande, diventa stretto La Silimed invade l’intero Sud America e, poi, sull’onda dei numeri e della trionfalistica propaganda, sbarca in Europa, come Cristoforo Colombo con le tre caravelle nelle Americhe, forte di un visto autorizzativo rilasciatole da un autorevolissimo certificatore dell’Unione Europea di nazionalità tedesca. Tutto sembra procedere a gonfie vele, sino a quando, nel 2015 un improvviso patatrac dai contorni rovinosi, né sconvolge i piani. Sulle protesi più belle del mondo, si abbatte una bufera giudiziaria, amministrativa e mediatica di proporzioni bibliche. Tutti i presidi medici della Silimed sono messi fuori commercio, dopo che un’ispezione ha evidenziato la presenza di particelle, fuori da qualunque schema, e quindi, più che sospette. A essere tagliati dalla scure della sospensione non sono solo le protesi mammarie, ma anche quelle in uso per i glutei e gli impianti dei testicoli e del pene. La stampa estera arriva a prospettare il rinvenimento di sciagurate fibre di vetro. Il Ministero della Salute emana una circolare, meno apodittica, ma ugualmente eloquente, che denuncia la presenza di “materiale non previsto sulla superficie di alcuni prodotti”. La comunicazione della sospensione di tutti i presidi medici della Silimed è solennemente proclamata, urbi et orbi, dall’autorevolissima “Autorità centrale dei Laender per la salute, i farmaci e i prodotti sanitari”. La motivazione è perentoria. Il materiale utilizzato non è conforme alle direttive europee. Gli osservatori neutrali avevano ingenuamente pensato che sull’epopea della Silimed fosse stata scritta la parola fine e che ne fosse definitivamente compromesso persino l’onore. E, invece, hanno fatto in tempo a cambiare il copione. Esultate gente. Dall’incubo si è passati al lieto fine del “tutti vissero felice e contenti”. La Silimed, data per morta e sepolta, è resuscitata, riapparendo viva e vegeta da un’altra parte, come dice, con una battuta passata alla storia del cinema, Vittorio Gassman nelle vesti sconce di Brancaleone da Norcia. La nuova sede dell’armata invincibile è ubicata, per chi non lo sapesse, a Vicenza, per la precisione al numero civico 39 di via Giovanni Maganza, detto dagli amici Magagnò. Nuova la sede e nuovo anche l’ente certificatore che, a dar retta più ai sussurri che alle grida, sarebbe di nazionalità polacca e avrebbe come sogno nascosto nel cassetto, il prestigio acquisito dal precedente, che, peraltro, aveva, urbi et orbi, peccato. Tutto a posto? Chissà. Quel che è certo è che sul sito della Silimed dell’increscioso passato si sono perse le tracce. Il materiale incongruo, le presunte fibre di vetro, le sospensioni della licenza e della libera vendita. Tutto sparito nel nulla, come accade ai prestigiatori nel corso delle loro sbalorditive performance. La senatrice Elena Fattori, invitata a commentare la vicenda del morto resuscitato, ha sottolineato l’esistenza a monte di un problema generale, che riguarda la qualità e la trasparenza dei controlli, perché “troppo spesso le certificazioni sono pezzi di carta scollegati da qualsiasi valutazione, che consentono, grazie anche a una normativa che fa acqua da tutte le parti, alle aziende di farla franca anche quando dai loro laboratori escono prodotti non congrui e pericolosi per la salute umana”.
Tanta acqua è passata sotto i ponti, ma l’insicurezza è una scoria che resiste. Sempre nuovi marchi invadono, come funghi spontanei, il territorio. Non esistono prototipi. Ce n’è ormai per tutti gusti. Alcuni marchi rappresentano gigantesche multinazionali con fatturati miliardari. Scendendo i gradini della scala, si passa alle medie e piccole imprese, sino ad arrivare alle botteghe a conduzione familiare e, in alcuni casi estremi, addirittura personale.
Orientarsi non è facile. Accanto a tante aziende che lavorano nell’assoluto rispetto delle regole e della professionalità, c’è la giungla apparentemente inestricabile del passaparola e degli imbonitori di professione.
Prima di scegliere una protesi mammaria, dovremmo, seppure sommariamente, ricostruire il percorso autorizzativo e, soprattutto, valutare l’attendibilità dell’ente che ha sottoscritto la certificazione d’idoneità. Altri indici importanti sono il numero dei Paesi in cui un determinato prodotto è venduto, l’entità del fatturato, il gradimento dei pazienti e i giudizi della comunità scientifica internazionale. C’è, poi, il criterio antico ed eterno del buon senso. Nel corso del RSO e del suo intervento al congresso RDBS Roma Dubai Breast Symposium del 14, 15 e 16 giugno 2023, il dottor Marcello Pozzi ha suggerito di diffidare delle offerte di prestazioni chirurgiche e di dispostivi protesici, a prezzi bassi o, addirittura stracciati.
Un segnale importante di trasparenza, a difesa dei pazienti disorientati e troppo spesso ingannati, arriva dal ministero italiano della Salute, che ha istituito il registro di tutti gli impianti protesici. Al di là di tutti i suggerimenti, le precauzioni e le valutazioni, sono gli utenti ad avere la responsabilità di una scelta, che per sua stessa natura, crea apprensione e, qualche volta, mette anche paura. Dobbiamo sempre tener presente che la sicurezza non è un marchio in vendita. Come non lo è la nostra vita. La posta in gioco è alta. Bisogna scegliere serenamente e consapevolmente. Non alla cieca. Se sbagliamo, ci rimettiamo solo noi.
di Antonello Sette