Intervista esclusiva di Antonello Sette a Tiziana Ascione, Dirigente Medico di Malattie Infettive dell’Ospedale AORN “A.Cardarelli” di Napoli

“Le Infezioni osteoarticolari – protesiche e/o dei mezzi di osteosintesi – costituiscono un problema di sanità pubblica in continua crescita, in ragione anche dell’aumento del numero degli interventi di protesizzazione, che si eseguono ormai quotidianamente, anche su pazienti anziani, e del numero di interventi di osteosintesi che vengono effettuati per esempio nei traumi derivati da incidenti stradali”.

La Dott.ssa Tiziana Ascione, Infettivologa del Cardarelli di Napoli, lancia l’allarme. La situazione rischia seriamente di sfuggire di mano, per gli  elevati costi sociali, economici e psicologici.

“L’insorgenza delle infezioni è collegato in primis a un dato oggettivamente inequivocabile; tutti gli interventi, di cui stiamo parlando, sia che si tratti di applicare una protesi articolare su un ginocchio o su un’anca, sia che si tratti di posizionare una placca con viti per una frattura di una tibia o di un femore, possono essere colonizzati da batteri che risultano   nella formazione di “un biofilm” che è responsabile delle difficoltà nel trattamento medico chirurgico di queste infezioni. È una contaminazione percentualmente al momento inevitabile, che comporta la dolorosa conseguenza del fallimento dell’intervento. Se i batteri si attaccano alla protesi o alla placca con le viti, altro non resta che rimuovere la protesi articolare e/o l’osteosintesi”.

Immagino che le conseguenze del fallimento di un intervento a cui ci si era avvicinati nella ragionevole convinzione che potesse risolvere, una volta per tutte il problema da cui si era afflitti, possono essere devastanti da più punti di vista…

“Da un punto di vista clinico l’infezione che insorge dopo l’intervento ha, purtroppo, un impatto diretto sulla qualità della vita del paziente, che può ritrovarsi costretto ad affrontare, a parte le problematiche di routine direttamente collegate all’operazione, anche ad un dolore persistente articolare. Le conseguenze di un fallimento, percentualmente annunciato, si riflettono direttamente anche sui costi della gestione medico chirurgica in questo tipo di infezione. Le faccio un esempio che aiuta a capire. Una protesi al ginocchio che si infetta obbliga il paziente ad ulteriori ospedalizzazioni ed interventi multipli perché l’impianto posizionato in articolazione deve essere rimosso e, a distanza di tempo, riposizionato. Ci sono anche, come è ovvio, degli altissimi costi emotivi a carico del paziente e della sua famiglia, costretto a subire suo malgrado, i numerosi interventi chirurgici, una lunga terapia antibiotica con il rischio e la paura che l’infezione si ripresenti dopo il trattamento medico chirurgico.

In pratica si ricomincia da zero, in un quadro psicologico di sopravvenuta incertezza…

“Si è tentato da più parti di escogitare dispositivi metallici refrattari ai batteri, ma è ancora solo uno scenario in divenire, con molte speranze e, allo stato degli atti, nessuna certezza”.

Una domanda sorge spontanea. Perché non è possibile scongiurare a monte la contaminazione batterica su protesi e placche?

“A monte non si può fare nulla di diverso da quello che già si fa e resta un problema insolubile, almeno sino a quando non si troveranno dispositivi metallici che non facciano da calamita ai batteri. La prevenzione antibiotica non può che essere quella standard che viene già effettuata per tutti gli interventi chirurgici come profilassi, ma non riesce ad azzerare il rischio di contrarre un’infezione. Un rischio che non è, badi bene, circoscritto all’Italia, ma investe tutti i Paesi del mondo, portandosi dietro a mo’ di spiegazione e aggravante, il numero dei batteri necessari per provocare l’infezione. Se per far insorgere una polmonite occorrono milioni di  batteri, per contagiare irrimediabilmente una protesi di un ginocchio o di un’anca ne sono sufficienti anche solo da alcune decine a un centinaio di batteri. Basta, come fonte di contaminazione, la pura e semplice cute del paziente o i batteri che si trovano nel territorio ambientale ospedaliero. Il rischio zero non esiste e, per essere chiari, neppure si intravede al momento all’orizzonte”.

Che cosa si nasconde al di là dell’orizzonte? Che cosa deve in prospettiva, accadere per cambiare un quadro apparentemente senza speranza?

“Io credo che le linee siano due. Una è quella che riguarda la possibilità di sperimentare materiali che impediscono l’attrazione batteri. L’altra concerne la prevenzione. Una prevenzione, che attiene sia alla fase precedente l’intervento, ma anche a quella immediatamente successiva. In questo senso diventa fondamentale la diagnosi precoce. Se un paziente mostra un sospetto di infezione, nelle prime quattro settimane dal posizionamento dell’impianto è possibile scongiurare la sua rimozione con una procedura di salvataggio, che deve comprendere sia una pulizia chirurgica, sia una terapia antibiotica avviata da subito, senza né indugi, né perdite di tempo. Purtroppo, le casistiche non solo italiane, ma internazionali, ci dicono, che la diagnosi arriva troppo tardi, quando l’infezione si è già cronicizzata”.

È una corsa contro il tempo?

“Sì ed è, quindi, molto importante sia la capacità del paziente di informare il medico al primo sospetto, sia la sensibilità del chirurgo, che deve indurlo a non trascurare il minimo segnale. L’aderenza alle Linee Guida Nazionali ed Internazionali rappresenta al momento l’unica strada per migliorare la profilassi, la diagnosi e il trattamento delle infezioni osteoarticolari. Aspettare, oltre il dovuto, può significare, ahimè, dover ricominciare da capo e ripartire da zero”.

SaluteIn

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