Intervista esclusiva di Antonello Sette ad Andrea Bottega, infermiere dal 1991, Segretario nazionale del sindacato degli infermieri Nursind

Segretario Bottega, ho avuto, ahimè, recenti esperienze ospedaliere, che mi hanno rafforzato in una mia solida convinzione. Gli infermieri italiani hanno una vita professionale durissima, guadagnano pochissimo e non contano praticamente nulla, nonostante rappresentino oltre la metà dell’intero personale sanitario e tutti si affannino ad esaltarne l’importanza. È così?

“Lei ha fotografato perfettamente la situazione. Se è per questo, gli infermieri non contano nulla neppure all’interno del Ministero della Salute. Non esiste un solo dirigente infermieristico assunto come tale. Nulla è cambiato, nonostante un’ondata pandemica che, se non fosse stato per gli infermieri, avrebbe travolto il Paese. A salvare l’Italia non sono stati né gli oculisti, né gli endocrinologhi, né i grandi chirurghi. C’era da fare innanzi tutto isolamento e predisporre flussi di ossigeno. Chi si buttava dentro nella mischia? Chi si prendeva cura dei pazienti terrorizzati, che non riuscivano a respirare o, nei casi estremi, chiedevano solo di morire con dignità? La risposta è una sola: gli infermieri. Eppure è una categoria dimenticata, sino al punto da non essere rappresenta da nessuno all’interno del Ministero della Salute. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Siete stati dimenticati anche dal decreto governativo sulle liste d’attesa…

“Il decreto, appena approvato dalla Camera, è stata un’altra occasione persa. Le proposte di valorizzazione della professione, ampliandone le competenze, avanzate da diversi senatori durante la prima lettura del provvedimento, sono state, infatti, irresponsabilmente respinte. Sarebbe stato un piccolo segnale di attenzione, visto che sugli altri problemi che vive la categoria ancora nessuno ha mosso un dito. a cominciare dalle retribuzioni degli infermieri italiani che sono inferiori del 23 per cento rispetto alla media di quelle dei paesi OCSE. Soffriamo, poi, di una carenza cronica di personale, che si accentuerà enormemente fra cinque o sei anni, perché saremo letteralmente falcidiati dalla gobba pensionistica, quando si sarà ormai risolta quella medica. I medici, del resto, già mancano all’appello in alcune specialità: l’anestesia e rianimazione, la medicina d’urgenza e la radioterapia. La cronica carenze degli organici infermieristici spinge le aziende a riorganizzarsi, accorpando reparti dove possibile”.

Dove si rischia di andare a finire continuando così?

“Il prossimo passo sarà la chiusura degli ospedali. Un’eventualità tragica, che sembra non interessare a nessuno. Negli altri Paesi occidentali sono stati nominati commissari ad hoc per l’emergenza infermieristica, perché non c’è dubbio che siamo di fronte a un problema mondiale. I giovani non vogliono più avere a che fare con una professione pagata male e, per di più, afflitta da condizioni di lavoro ai limiti dell’umana sopportazione. Lei ha conosciuto da vicino l’ordinaria quotidianità dei pronto soccorso. Si immagini che cosa vuol dire lavorare in quel marasma. È un ragionamento, che si può tranquillamente estendere, seppure in forme diverse, alle unità operative e ai reparti. Manca un collega? Ti chiamano a casa per sostituirlo. Bisogna fare i turni notturni e lavorare sabato e domenica. Una vita privata, così come viene comunemente intesa, per gli infermieri è un miraggio. E, poi, ci si domanda perché i giovani non abbiano più voglia di fare questo mestiere. Gli infermieri andrebbero incentivati e, invece, si tira a campare”.

Finiremo per importarli dai Paesi a bassa occupazione?

“È l’ipotesi esplicitamente prospettata dal ministro della Salute Orazio Schillaci, ma è una soluzione che non tiene conto della realtà. Il nostro Paese non è in questo senso attrattivo, a partire da un’offerta economica palesemente insufficiente”.

Che cosa si può fare? Qual è concretamente la vostra proposta?

“Bisogna agire senza tentennamenti sulle retribuzioni. Bisogna riservare una quota delle risorse complessive al personale infermieristico. È di infermieri che il sistema ha bisogno e l’unica soluzione possibile è incentivare i giovani, tornando a rendere competitiva una professione che da molto tempo non lo è più. Bisogna prendere iniziative adeguate per i corsi di laurea, con più borse di studio e più esoneri dalle tasse. Pensi a chi vuole laurearsi a Milano ed è costretto a un andirivieni continuo dalla propria sede di origine, perché non sono insostenibili non solo gli affitti, ma anche le tasse di iscrizione e i tirocini, con l’inizio turno fissato alle sei del mattino. Pensi a chi abita nelle periferie o nelle zone di montagna. I fuorisede devono sostenere costi elevatissimi e alla fine dei tre anni di corso, quando va bene, si ritrovano a guadagnare mille e seicento euro netti al mese con i turni, perché altrimenti non arrivano a mille e cinquecento”.

Bottega mi spiega perché voi sindacati, al di là delle buone intenzioni e dei proclami, non riuscite a far uscire la categoria, che rappresentate, dal guado di un immobilismo che non porta da nessuna parte?

“Il sistema è medico-centrico. Sulle liste d’attesa, eravamo stati chiari. Come si fa ad accorciare i tempi delle liste di attesa, mantenendo le regole dell’esercizio professione, risalenti allo scorso secolo o, addirittura, a due secoli fa. Non è accettabile che tutto continui a passare attraverso la figura del medico. È ridondante e non serve a nessuno, neppure ai medici ovviamente. Gli infermieri potrebbero assumersi compiti importanti nei pronto soccorso, come le piccole suture o le medicazioni. Potrebbero incidere sugli assetti e sgravare i medici di tante attività loro riservate da protocolli antiquati e anacronistici. Il tempo liberato potrebbe consentire loro di fare più prime visite e più diagnosi tempestive. Era la nostra proposta ed è stata bocciata”.

Dobbiamo mettere in conto l’autunno caldo degli infermieri italiani?

“Sarà un autunno caldissimo. Molte altre organizzazioni sindacali condividono la nostra intenzione di dar voce e spazio al malessere dilagante. Noi stiamo perdendo, ed è un processo destinato a moltiplicarsi se si continua a non far nulla per fermarlo, pezzi anche dentro il sistema. Ci si licenzia nella speranza di trovare un altro lavoro, meno pesante e più remunerativo. La misura è colma. Tutti devono assumersi le loro responsabilità. A partire, ovviamente, da noi sindacati”.

SaluteIn

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