Intervista esclusiva di Antonello Sette a Giuseppe Esposito, infermiere dell’ospedale Sant’Andrea di Roma

Esposito quando ha cominciato a fare l’infermiere?

“Ventitré anni fa”.

Ha lo stesso entusiasmo dei primi giorni?

“Purtroppo no. Quando ho cominciato, l’entusiasmo era alle stelle. Sognavo di guarire il mondo. Volevo crescere, professionalmente e come persona. I sogni sono svaniti, le illusioni cadute come foglie al vento. A farmi male è il sistema in cui operiamo, soprattutto il modo in cui ci trattano. E naturalmente il compenso economico, che è fra i più bassi d’Europa”.

Che cosa le resta dopo ventitré anni di sogni infranti?

“La gratitudine dei pazienti, un grazie strozzato, mormorato o solo disegnato nei loro occhi. Per il resto, siamo, e restiamo, l’ultima ruota del carro. Noi non contiamo nulla. E, se vado a guardare i cedolini degli stipendi di dieci anni fa, scopro che nel frattempo è aumentato tutto, ma noi guadagniamo la stessa cifra, se non di meno”.

È vero che molti infermieri si licenziano?

“Si accontentano di una paga anche più bassa, pur di non avere le responsabilità che abbiamo, i turni massacranti, le notti e i weekend trascorsi in ospedale. Siamo sempre gli stessi a sobbarcarci tutto il lavoro. Lo Stato non assume. Al massimo, nell’emergenze si rivolge alle cooperative. Capita sempre più spesso che qualcuno di noi, dopo uno o due turni notturni consecutivi, sia vittima di un incidente stradale tornando a casa. Ho trascorso al Sant’Andrea le ultime due notti e non mi sono ancora ripreso. Non viviamo una vita normale”.

Lei ha detto che voi infermieri non contate niente. Mi fa un esempio concreto…

“È un’umiliazione continua e senza fine. Non c’è rispetto per il nostro lavoro. Non lo rispetta il sistema sanitario nel suo complesso. Non lo rispetta la politica. Quando nel mio reparto, che è quello della rianimazione cardiologica, capita che sia ricoverato qualche big della politica, rimane sorpreso, anzi sbigottito, vedendo dal vivo quello che facciamo. Nessuno sa veramente chi siamo e quale è il nostro ruolo, almeno sino a quando non gli capita di vivere la sua personale esperienza di malato”.

È dura la mattina alzarsi dal letto e continuare?

“Purtroppo, più passa il tempo e più è dura. È un tunnel, di cui non si intravvede una via d’uscita. Eppure basterebbe poco. Un riconoscimento. Un grazie pronunciato al momento giusto. Basterebbe, soprattutto, un minimo di disponibilità ad ascoltarci. Avremmo molte cose da dire. Nell’interesse di quello stesso Sistema Sanitario che ci ha messo ai margini. Lavoro in questo ospedale da ventitré anni. Qualche consiglio utile potrei darlo. E, invece, a nessuno di quelli che al Sant’Andrea hanno una qualsivoglia responsabilità, è mai venuto in mente di chiedermi un parere. Un mero e semplice parere. Noi dobbiamo solo pedalare. Nel gruppo. Nell’ombra. Senza tregua”.

SaluteIn

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