Intervista esclusiva di Antonello Sette a Giuseppe Ducci, psichiatra, Direttore del DSM ASL Roma 1

Il 10 ottobre si celebra ogni anno la giornata mondiale della Salute mentale. Che peraltro, dovrebbe restare al centro dell’attenzione di qualsiasi Paese civile, oltre il giorno celebrativo, per tutti, con tutto quello che comporta in termini di benessere, sofferenza e dolore. L’impressione dal di fuori è che in Italia lo sforzo del sistema pubblico sia insufficiente da tutti i punti di vista: risorse, organizzazione e quadro di riferimento normativo…

“La salute mentale non è la psichiatria. La comprende ovviamente, ma è qualcosa di molto più vasto e, in quanto tale, interessa tutti, nessuno escluso. La parola salute sta a significare che l’ambito non è ristretto alla sola patologia e configura un bene collettivo e, insieme, individuale. Oggi molti studi concordano nel sostenere che investire sulla salute mentale equivalga a gettare le basi di un aumento del PIL di un Paese. Le persone un con disturbo mentale sono tantissime. La promozione e la prevenzione della salute mentale ha, senza dubbio alcuno, anche un effetto positivo sull’economia generale e, ovviamente, sulla convivenza civile”.

Lei ha parlato dell’importanza di investire sulla salute mentale sia a livello sociale che economico. Guardando nello specifico all’Italia, i presidi schierati sul territorio rispondono alla complessità delle esigenze?

“La salute mentale non è un concetto astratto. Presuppone procedure e modelli logistici. I dipartimenti di salute mentale sono le strutture organizzative, che in Italia sono deputate a occuparsi non solo della cura delle patologie, ma anche di promozione e di prevenzione. I nostri dipartimenti sono, è inutile girarci intorno, in grande difficoltà e, inevitabilmente, ne risentono a cascata: la qualità dell’assistenza, dei servizi e degli interventi destinati alla salvaguardia, preventiva e curativa, della salute mentale largamente intesa”.

Quali sono i punti critici del sistema basato sui dipartimenti di salute mentale?

“I motivi dell’inadeguatezza sono essenzialmente tre. Il primo e più importante è la progressiva diminuzione delle risorse, sia in termini assoluti che relativi. È diminuita la quota percentuale dell’investimento generale in proporzione al PIL. Anche gli aumenti recentemente stanziati non coprono la differenza riferita. Non bastasse, la quota del fondo sanitario nazionale, destinata alla salute mentale a livello regionale, è scesa dal 5 al 2,5 per cento, ovvero all’esatta metà di quello che avrebbe dovuto essere. Oltretutto, i finanziamenti stanziati sono legati a meccanismi di spesa antichi e anacronistici, quali sono i conti economici a silos. È assurdo che io non possa trasferire da un conto economico a un altro i vantaggi che ottengo risparmiando su alcune voci di spesa”.

Può farci un esempio concreto?

“Se io utilizzo interventi psicosociali di provata efficacia, posso di riflesso ridurre la spesa per la residenzialità, che incide per l’ottanta per cento sulla spesa complessiva per la salute mentale. Ebbene, incredibile ma vero, i soldi risparmiati non possono essere impiegati per ulteriori interventi psicosociali o per un trattamento farmacologico di superiore qualità e di maggiore costo. Questo significa che il famoso budget di salute è ancora di fatto lettera morta”.

Passiamo al secondo punto del cahiers de doléances…

“Il secondo nodo critico, peraltro legato a quello delle risorse inadeguate, riguarda i modelli organizzativi. Esistono ancora in Italia aree geografiche, dove la salute mentale degli adulti è separata da quella dell’età evolutiva e dalle dipendenze. Dovremmo, invece, procedere univocamente nella direzione di un modello integrato, ancorato al principio dell’unicità della salute mentale, che inizi dal momento del concepimento e comprenda anche al suo interno le dipendenze. È, soprattutto, fondamentale che l’attenzione sia spostata a ritroso verso i primi anni di vita e il periparto, perché è in quei primissimi periodi, che in molti fanno risalire addirittura alla fecondazione, che ha inizio il gioco e si decidono i destini. Ci sono numerose prove scientifiche sull’incidenza dello stile di vita osservato prima e durante la gravidanza, sulla strutturazione del nostro cervello, in virtù di meccanismi epigenetici, che si traducono nella resilienza, ovvero nella capacità futura di tollerare lo stress. Indipendentemente dalla diagnosi e anche in presenza di fattori ambientali fortemente patogeni”.

Ora veniamo al terzo capitolo, forse il più doloroso…”.

“Il terzo punto critico della salute mentale riguarda la giustizia e l’applicazione delle pene. Come tutti sanno, una legge del 2014 ha chiuso per sempre i manicomi giudiziari. Il problema nasce dal fatto che non sia stata contemporaneamente modificato il codice penale. Ancora oggi rispondiamo ad articoli di legge del Codice Rocco sulla capacità di intendere e di volere e, quindi, sulla punibilità. Non bastasse, sopravvive una pericolosità sociale di tipo psichiatrico. Il risultato di questo insostenibile doppio binario normativo è che, una volta chiusi i manicomi giudiziari, i dipartimenti di salute mentale si ritrovano obbligati a svolgere compiti di custodia e non più solo di cura, con enormi responsabilità professionali e penali, a carico soprattutto degli psichiatri. Credo che sia, invece, necessario ridurre del 99 per cento la platea delle persone che commettono reati e che non sono punibili e aumentare per chi soffre di un disturbo mentale i percorsi di cura in ambiente carcerario, o in alternativa alla detenzione, peraltro già esistenti, con interventi appropriati all’interno del tessuto sociale, che evitino di deviare i dipartimenti di salute mentale verso compiti di psichiatria forense e di custodia delle persone, che in molti casi manifestano sì un disturbo, ma sono certamente capaci di intendere e di volere. Mi riferisco a un enorme numero di persone con disturbo antisociale, uso di sostanze e comportamenti delinquenziali, che necessitano di un contenimento giudiziario forte”.

Ed anche di assistenza e di interventi psichiatrici adeguati…

“Oggi ci sono almeno duemila, se non tremila, persone detenute nelle carceri italiane, che hanno un livello di assistenza psichiatrica e per le dipendenze bassissimo e assolutamente insufficiente. È urgente stabilire, anche in considerazione del numero dei suicidi in costante aumento, percorsi di assistenza e cura all’interno del carcere, adeguati alle esigenze e alle aspettative di chi ha un disturbo mentale e una dipendenza. È un aspetto decisivo, perché non è solo in carcere che ci troviamo di fronte a un quadro di comorbilità, ovvero con l’implicazione di patologie diverse fra loro. Non si dovrebbe più parlare di doppia diagnosi, ma di una, per l’appunto comorbilità, fra l’uso di sostanze e i disturbi mentali”.

Che spesso provengono da un vissuto lontano…

“Sì, in molti casi l’uso di sostanze è il risultato finale di un disturbo di neurosviluppo. E oggi noi siamo fortunatamente molto più capaci, non solo di intercettarlo, ma anche di trattarlo con risultati importanti. Parlo dei disturbi autistici ad ampio spettro e ad altissimo funzionamento, e dei disturbi da deficit dell’attenzione e della iperattività, i cosiddetti ADHD. Molto spesso il percorso evolutivo di queste persone evolve verso l’uso di sostanze, che poi comportano l’insorgenza di disturbi mentali. Sono patologie, che insorgono molto più presto di quanto comunemente si creda. È una comorbilità inestricabile, che deve essere trattata per tempo con servizi integrati e ha bisogno di risorse dedicate. Prima che diventi tutto più complicato e, talvolta, drammatico”.

SaluteIn

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