Intervista esclusiva di Antonello Sette a Massimo Carlini, primario chirurgo all’Ospedale Sant’Eugenio di Roma e presidente della Società Italiana di Chirurgia
“Da ragazzino volevo fare il dottore. Poi, quando, come studente del primo anno, ho visto una dissezione dal vivo, mi sono innamorato dell’anatomia umana e ho pensato che per un medico la cosa più bella fosse ripristinare con un gesto diretto e tangibile la salute e la vita di una persona. Mi affascinava l’idea di entrare all’interno delle strutture del corpo umano, che sono di una bellezza mirabile, e modificarle, asportarle, ricostruirle e cambiarle.
La chirurgia è concreta e rapida. La medicina interna è più lenta, meno diretta e mediata dai farmaci. Non c’è il fare. Non c’è il gesto”.
La storia professionale di Massimo Carlini, primario chirurgo all’Ospedale Sant’Eugenio di Roma e presidente in carica della Società Italiana di Chirurgia, ha il fascino del primo grande amore, che quaranta anni di esercizio non hanno minimamente scalfito, ma, se possibile, rafforzato. Gli chiedo che cosa può fare la chirurgia di fronte all’avanzata del cancro: !4.100 casi in più dal 2020 al 2022…
“La chirurgia può fare moltissimo in tutti i tumori solidi, senza distinzione fra un organo e un altro. La chirurgia resta il pilastro fondamentale della quotidiana battaglia contro il cancro. Un pilastro per lo più composto da nove mattoni sui dieci totali. A ventitré anni dall’inizio del terzo millennio, la chirurgia è ancora la parte di cura più importante. Le sono, sì, cresciute accanto, e ne hanno sostenuto l’azione, altri fronti terapeutici, come la chemioterapia, la radioterapia, l’immunoterapia e la terapia genomica, ma la chirurgia resta il primo e principale avamposto contro il cancro”.
Sarà così anche in futuro o è ipotizzabile un’inversione di tendenza?
“Grazie allo sviluppo di nuove sostanze e di nuove molecole, è sicuramente ipotizzabile che in un futuro, peraltro ancora lontano, la chirurgia non servirà più, se non per rimpiazzare l’organo malato con uno costruito artificialmente. Non è fantascienza, ma al momento non c’è niente di reale. Nel grande libro in divenire sulla lotta ai tumori, la chirurgia è ancora, e di gran lunga, il capitolo più importante”.
Li ha contati gli interventi che ha eseguito?
“Sì. Sono ventimila. Più di due terzi di chirurgia oncologica. Cinquecento all’anno, considerando che ho iniziato a lavorare giusto quaranta anni fa. Ho avuto un solo primario e un solo maestro: Eugenio Santoro. Sono stato con lui prima al Cristo Re, un piccolo ospedale romano e poi all’Istituto Tumori Regina Elena. Nel 2003 ho vinto un concorso pubblico e il primo luglio di quest’anno compirò venti anni di primariato al Sant’Eugenio”.
“Ventimila interventi. Ventimila vite fra le mani. Ce n’è uno che, più degli altri, le è rimasto dentro, come una non asportabile parte di sé?
“Gli atti chirurgici, per uno che come me ha scelto di fare questo mestiere, sono tutti pezzi di sé, che scivolano dalle proprie mani ed entrano per sempre nel corpo delle persone. Non soltanto quando, come accade fra il 90 e il 95 per cento dei casi, l’esito è positivo, ma anche, e soprattutto, quando va male. Che un intervento non si conclude nella maniera auspicata non lo si scopre durante, ma dopo, quando sopraggiunge una complicazione, a cui solo a volte si riesce a porre rimedio. Gli interventi, che mi rimangono dentro, sono quelli dei malati che avevano visto la guarigione in faccia, prima di perdere la vita. Quegli interventi e quelle persone non li puoi scordare. Mai”.
Si ricorda più la morte che la vita?
“È sempre così. I guariti, che sono la quasi totalità degli interventi eseguiti, si dimenticano, più o meno in fretta. Sono loro, quando tornano, magari dopo decenni, per una visita o anche solo per un saluto, a evocare l’importanza di un gesto accantonato dalla memoria. Poi, c’è la memoria perenne del primo intervento, che in un fatidico giorno il tuo maestro ti ha consentito di fare. C’è lo stupore, ancora impresso dentro di te, di un in intervento iniziato e portato a termine, senza averne prima completato neppure una parte. Un intervento, che avevi imparato a fare, osservando, ascoltando, sintonizzandoti sui gesti, che poi avresti dovuto replicare. La chirurgia è imparare con gli occhi quello che fa un grande chirurgo e provare a ripeterlo. C’è chi, come me, questa fortuna l’ha avuta e chi no. Io l’ho fatta mia e il sogno di quel giovane studente, che con un colpo di fulmine si innamorò della meravigliosa architettura del corpo umano, è diventato realtà. E quaranta, impagabili, anni di vita”.