Intervista esclusiva di Antonello Sette a Salvatore Squarcione, già Direttore della Divisione Malattie Infettive del Ministero della Salute e dell’Istituto Nazionale Lazzaro Spallanzani
“Gli antibiotici sono a disposizione dell’uomo da quasi cento anni. Da quando, ripercorrendo a ritroso la storia, il medico inglese Alekander Fleming scoprì, più o meno casualmente, che una piastra di coltura, contaminata dalla muffa, inibiva la crescita dei batteri. Da lì nacque la salvifica penicillina. Gli antibiotici hanno, nel corso degli anni, salvato milioni di vite umane, di fatto ridimensionando, se non debellando, malattie endemiche dall’esito sino ad allora quasi sempre infausto, come la tubercolosi. Gli antibiotici hanno anche reso più sicuri gli interventi chirurgici, evitando che processi infettivi post operatori ne compromettessero il buon esito. Oggi, però, gli antibiotici, pur continuando a rappresentare l’unica terapia valida contro i batteri, rischiano, sempre più spesso, di risultare inefficaci. Un problema aperto, che merita, forse, più attenzione, di quella che gli viene prestata”.
Il dottor Salvatore Squarcione che, fra tante altre cariche prestigiose, ha diretto la Divisione Malattie Infettive del Ministero della Salute, lancia l’allarme, seppure con la compostezza, che gli deriva da una lunghissima esperienza e da una riconosciuta competenza. Che cosa sta succedendo dottor Squarcione?
“Da qualche anno assistiamo, con sempre maggiore preoccupazione, alla crescita su vasta scala di batteri antibioticoresistenti, come sono chiamati quelli che non reagiscono favorevolmente alla somministrazione degli antibiotici. E, purtroppo, accade molto spesso che i batteri incriminati resistano a più di un singolo antibiotico”.
Chi è maggiormente esposto all’inefficacia degli antibiotici per la crescente diffusione di ceppi batterici resistenti?
“Ovviamente, le persone più fragili, come i ricoverati in terapia intensiva, gli anziani e i neonati. Secondo alcune stime, considerate attendibili, sarebbero 1,27 milioni le persone decedute a livello mondiale nel solo 2019, a seguito di un’infezione da batteri antibioticoresistenti. Le Nazioni Unite sostengono che almeno il sette per cento dei pazienti ricoverati in ospedale rischia di contrarre un’infezione batterica resistente agli antibiotici. Purtroppo, per vari motivi all’interno delle strutture ospedaliere i batteri si modificano più facilmente e diventano più resistenti all’aggressione antibiotica”.
Qual è, entrando nello specifico, il livello di allarme nel nostro Paese?
“Siamo messi male. L’otto per cento dei pazienti ricoverati negli ospedali italiani contrae un’infezione batterica e il quarantacinque per cento di loro deve fare in conti, a vari livelli di gravità, con l’antibioticoresistenza. Peggio di noi in Europa, come numero di decessi dovuti alla resistenza dei batteri agli antibiotici, sta solo la Grecia. In Europa i morti sono trentatremila. Una cifra molto preoccupante, a cui l’Italia contribuisce in modo preponderante con undicimila decessi all’anno, ovvero un terzo del totale”.
A che cosa è dovuto l’inquietante secondo posto italiano?
“Una delle cause, cui non si pone sufficiente attenzione va individuata nell’utilizzazione su vasta scala degli antibiotici a livello zootecnico, dove viene consumata più della metà del numero totale degli antibiotici utilizzati in Italia. Una quantità di molto superiore a quella di tutti gli altri Stati europei. L’uso capillare degli antibiotici negli allevamenti animali favorisce il proliferare di batteri antibioticoresistenti, che vengono successivamente trasmessi agli uomini, sia per contato diretto che attraverso gli alimenti e la contaminazione ambientale. Poi c’è l’uso incongruo degli antibiotici come l’eccessivo ricorso a pratiche invasive”.
È un quadro, quello che lei delinea, già sufficientemente fosco. Ci fermiamo qui, o c’è dell’altro, a complicare ulteriormente le prospettive?
“In questo momento una delle ulteriori problematiche emergenti deriva dalla scoperta di un’interazione di alcuni antidepressivi con i batteri, che li rende resistenti agli antibiotici. È stato di recente pubblicato sulla prestigiosa rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas)” l’esito di una ricerca, che ne è la prova lampante. I risultati dell’indagine dimostrano, in maniera inequivocabile, che l’esposizione a cinque dei più comuni antidepressivi in circolazione può favorire la selezione di ceppi antibioticoresistenti. La ricerca in questione si è, però, limitata all’Escherichia coli, che è un batterio sotto stretta sorveglianza. Resta da capire, e non è un ulteriore approfondimento di poco conto, se alcuni antidepressivi possano interagire anche con ceppi batterici diversi dall’Escherichia coli”.