Intervista esclusiva di Antonello Sette al professor Vittorio Unfer, ginecologo, docente universitario UNICAMILLUS di Roma e Presidente dell’EGOI-PCOS
Professor Unfer, la policistosi ovarica è ormai un capitolo importante del grande libro che racchiude la storia della medicina…
“Ci avviciniamo per l’appunto a un anniversario che sintetizza e conferma il senso di quello che lei asserisce. Nel 2025 saranno passati novanta anni dalla prima diagnosi fatta di concerto dai ricercatori Stein e Leventhal. Sarà un anno importante e, come EGOI-PCOS, la società scientifica internazionale, di cui sono il presidente, cureremo tutta una serie di eventi scientifici celebrativi. Cercheremo di farne, soprattutto, un anno di consapevolezza della malattia. Una consapevolezza, che deve riguardare nello stesso tempo e modo medici e pazienti”.
Perché anche i medici?
“Perché nella vecchia classificazione del 2003, obsoleta anche dopo la parziale rivisitazione del 2023, i pazienti sono inquadrati in una modalità troppo rigida. Dobbiamo, invece, pensare alla sindrome ovaio-policistica, come se fossimo in un film. Un film che ha tanti fotogrammi. Quando noi visitiamo la paziente, vediamo solo la fotografia di quel momento, non quella antecedente e neppure quella successiva. Una classificazione rigida non tiene evidentemente conto delle alterazioni che evolvono progressivamente nel tempo. Dobbiamo, quindi, avere la capacità e la consapevolezza di andare oltre una singola fotografia. Così come, quando io rivedo un film di Bud Spencer e Terence Hill, e ascolto una battuta, conosco anche quella che è stata pronunciata prima e quella che verrà dopo. So quello che è accaduto, quello che sta accadendo e come evolverà la trama”.
Avete provato a stilare una classificazione che sia al passo con lo stato della ricerca e le più moderne convinzioni?
“Come EGOI-PCOS abbiamo già provveduto a una riclassificazione della malattia, che parte dal riconoscerla come una patologia di carattere endocrino-metabolico, che poco ha a che a fare con l’ovaio, vittima e non artefice della situazione patologica. Il nome di sindrome ovaio-policistica è, quindi, fuorviante, perché, chiamandola in questo modo, viene da pensare a una malattia essenzialmente ovarica, mentre nella realtà l’origine è metabolica e l’insulina gioca un ruolo importante. È l’insulina ad aggredire l’ovaio che, da vittima designata, inizia a produrre ormoni maschili, con tutti i sintomi caratterizzanti la malattia: l’eccesso di peluria, la caduta dei capelli, la formazione di acne e una distribuzione di grasso di tipo maschile e non femminile. Tutta una serie di manifestazioni cliniche e di alterazioni metaboliche, a cominciare dallo zucchero e dal diabete sino all’aumento del colesterolo”.
Quanto è importante il nuovo approccio, che sarà al centro dell’attenzione anche in tutti gli eventi celebrativi del novantennio?
“È importante perché, ad esempio, oggi una delle terapie più diffuse è la somministrazione della pillola, che però, è solo un sintomatico in grado di ridurre i segni e, per l’appunto, i sintomi della malattia, ma non è terapeutica, perché non serve a curare l’alterazione metabolica, anzi risulta spesso, in questo senso, addirittura peggiorativa. Se noi capiamo che siamo di fronte a una sindrome endocrina-metabolica, il primo approccio non può che essere un sostanziale cambiamento degli stili di vita. È importante lo svolgimento di un’attività fisica, così sono fondamentali nuove e più salutari abitudini alimentari, con la drastica riduzione degli alimenti ad alto grado glicemico e, infine, l’assunzione degli insulino-sensibilizzatori, primo fra tutti il myo-inositolo, una sostanza naturale, che è capace di sensibilizzare la risposta all’insulina, riducendone i valori e, quindi, l’aggressione all’ovaio e, al tempo stesso, agisce da amplificatore di alcuni ormoni, come FSH, che iniziano a lavorare meglio. La riclassificazione, che abbiamo effettuato come società scientifica, è quindi, di fondamentale importanza per potere creare, su basi nuove e più aderenti alla realtà, una terapia meno astratta, ma in qualche modo personalizzata per ogni tipologia di paziente e stato della malattia”.
Mi è rimasta un’ultima curiosità, che chiede di essere soddisfatta. Come ci si ammala di policistosi ovarica? Esiste una qualche predisposizione soggettiva?
“È una malattia a predisposizione genetica, il che non vuol che c’è ogni volta un trasferimento genetico. Ci sono pazienti che hanno una predisposizione nel loro DNA, a cui deve, però, seguire l’azione di fattori scatenanti esterni, che sono, per l’appunto, la sedentarietà, un’alimentazione iperglicidica e, quindi, come corollario, il sovrappesoe l’obesità. Sono gli stili di vita scorretti e poco raccomandabili a far scoppiare la tempesta. Ecco spiegato perché rettificare le proprie abitudini alimentari e porre un argine alla pigrizia fisica rappresentano un deterrente formidabile”.
C’è anche la questione, centrale e spesso drammatica, della mancata ovulazione…
“Sì, perché le donne, affette dalla policistosi ovarica, cronicamente non ovulano. È, in assoluto, la prima causa di infertilità di coppia e rappresenta, quindi, un problema di rilevanza anche sociale, ma nulla è perduto, perché, nel caso in cui le pazienti riescano a perdere il dieci o il quindici per cento del loro peso corporeo, l’ovaio si riattiva e l’ovulazione riparte. Questo conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che non si tratta di una malattia dell’ovaio, ma di un’alterazione del sistema endocrino-metabolico”.
L’infertilità provocata dalla policisti ovarica non è quindi irreversibile?
“Assolutamente no. Cambiando gli stili di vita e, conseguentemente dimagrendo in modo sano con l’aiuto della giusta terapia , si può recuperare al cento per cento la capacità di diventare madri”.